Le interviste impossibili – A cura di Giovanni Ballarini – Marco Gavio detto Apicio, gastronomo dei salumi

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Un’antica leggenda narra che nei musei, sotto il patronato di Apollo, la notte del solstizio d’estate le Muse richiamano in vita le immagini e danno voce agli oggetti che si fanno intervistare. È in una di queste occasioni che l’immagine di Marco Gavio detto Apicio, gastronomo dell’Antica Roma di duemila anni fa, prende vita e si fa intervistare sui salumi del suo tempo.

MARCO GAVIO DETTO APICIO, GASTRONOMO DEI SALUMI

Con l’imperatore Tiberio (42 a.C.- 37 d. C.) e dimenticate le leggi imposte da Giulio Cesare Augusto (63 a. C.-14 d. C.) a protezione della famiglia e del mos maiorum chiamate leges Iuliae, a Roma ogni giorno e notte vi sono feste e conviti sempre più sfarzosi, con cene preparate dai più celebri cuochi che i ricchi romani chiamano dall’Oriente. Tra i convivi spiccano quelli del gastronomo e amante di cucina Marco Gavio, nato il 25 a. C., che si merita il cognomen (soprannome) di Apicio degli altri grandi amanti della cucina che l’hanno preceduto. I suoi convivi sono frequentati da Gaio Cilnio Mecenate (68 a. C.-8 a. C.) ma soprattutto da Lucio Elio Seiano (20 a. C.-31 d. C.), confidente dell’imperatore Tiberio e suo consigliere e amico di tutti gli affari, e soprattutto da Druso Giulio Cesare (14 a. C.-23 d. C.) figlio dello stesso imperatore. Si sa che Apicio, così lo si chiama comunemente, non solo ha raccolto e continua a raccogliere ricette, ma sta scrivendo un libro sulla cucina, in particolare sui condimenti, che forse potrebbe denominare De Re Coquinaria. Riesco ad avere un invito a una delle sue cene che inizia con la gustatio, antipasti-stuzzichini e mulsum, vino dolcificato col miele, seguita da sette portate o fercula di grande varietà e abbondanza, tra i quali spicca un grande prosciutto cotto in crosta, e al termine delle quali i servi portano le tavolette che raffiguravano i Lari ai quali si liba col vino puro, per poi passare alla terza fase del banchetto, le secundae mensae o commissatio. È durante questa parte del banchetto che Apicio inghirlandato di fiori e profumato, consumando assieme agli altri stuzzichini piccanti innaffiati da frequenti brindisi, accetta di rispondere ad alcune mie domande.

A Roma Lei è conosciuto come il maggior intenditore dei buoni alimenti che va a cercare in tutto l’Impero con grandi sforzi e si dice anche con grande dispendio di denaro e si narrano alcuni aneddoti che certamente conosce.

Ben conosco quanto di me si dice e non ho paura, anzi mi vanto di confermare che sono proprio io che ho convinto il mio amico Druso a non mangiare i cavoli perché sono un cibo popolare che non conviene a una persona del suo rango, che è anche il mio, e per il quale è giusto armare una nave per avere i favolosi pesci della Libia. A proposito della contesa che ho avuto con il patrizio Publio Ottavio mi piace precisare che questa fu innescata dall’Imperatore Tiberio quando al mercato vide una grossa triglia scommettendo chi di noi due l’avrebbe comprata. Di pesci me ne intendo, so che hanno ventiquattro virtù e che ne perdono una ogni ora dopo che sono stati pescati. Quella triglia non valeva il prezzo richiesto e non l’avrei mai acquistata, ma per compiacere l’Imperatore finsi la lunga e animata controversia che piacque ai presenti e che l’avrebbero raccontata, dimostrando la signorilità della mia persona. Per quanto riguarda il suo accenno sul dispendio di denaro per i cibi e una cucina eccellente, ritengo che il denaro serva solo per dare un adeguato livello di vita e se dovessi ridurmi a possedere solo dieci milioni di sesterzi, che non mi consentirebbero il tenore di vita a cui sono abituato, preferirei suicidarmi. (Un sesterzio vale circa un Euro e si dice che Apicio morisse suicida accorgendosi che il suo patrimonio si era ridotto a “soli” dieci milioni di sesterzi.)

Corre voce che Lei, che non è un cuoco, stia raccogliendo ricette per comporre un’opera, ma perché e a chi è diretta?

Nonostante le apparenze, qui a |Roma vi è una grande ignoranza gastronomica che è anche sfruttata dai cuochi o presunti tali che arrivano dall’Oriente. Ben poche persone a Roma sono in grado di conoscere e soprattutto valutare i pregi dei cibi e le loro trasformazioni, iniziando dalle salse. Molti arricchiti non sono per esempio capaci di distinguere e apprezzare il garum flos floris (G. F. F.) di tonno da un liquamen di seconda qualità e da un allec da destinare agli schiavi e per questo proprio dalle salse ho iniziato la mia raccolta, non lesinando sesterzi per acquisire documenti per il mio De re coquinaria, affinché i condimenti, singolarmente e mescolati tra loro possano generare un’infinità di gusti diversi che il gastronomo deve giudicare e apprezzare per valorizzare ogni tipo di cibo.

In questa cena ho gustato in modo particolare il grande prosciutto cotto in crosta di pasta. Da gastronomo raffinato quale lei è, come giudica le carni di maiale e le loro diverse preparazioni?

Le carni dei maiali selvatici e domestici, dei quali noi romani siamo divenuti grandi allevatori in porcilaie sempre più grandi, sono un cibo che fresco o conservato vanno bene per tutti, ma soprattutto si prestano alla preparazione di piatti eccellenti come quello di questa sera e che metterò nel mio libro perché lo ritengo un simbolo della nuova cucina romana imperiale. La perna o coscia di maiale conservata va dissalata con acqua e il prosciutto allessato con molti piccoli fichi dolcissimi della Caria e con foglie di alloro, poi scotennato, inciso a tasselli riempiti di miele, rivestito con una sfoglia di pasta, fatta con farina ed olio e cotto al forno. Specialità che potremo gustare un’altra volta sono la spalla di maiale (petasonem) ma soprattutto la ventricina (ventricula) affumicata e le loro ricette descriverò nel De re coquinaria.

Si è fatto molto tardi, l’olio delle lucerne è quasi terminato e nel ringraziare per la magnifica cena e soprattutto per l’intervista, le pongo un’ultima domanda: Lei sta usando le sue ricchezze in cene e banchetti in una città dove regna una grande ignoranza gastronomica. Non è questa una contraddizione?

No. È appunto per l’attuale ignoranza gastronomica che scriverò il mio De re coquinaria destinato ai posteri che potranno così godere delle delizie del perna, petasonem e ventricula che avranno un futuro e grazie a me permarranno nella gastronomia.