Le acque “salse” e l’industria dei salumi

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Di Marco Fornasari

Che le acque di Salsomaggiore avessero proprietà peculiari era risaputo fin dall’antichità. Erano acque rare, rimaste imprigionate nel sottosuolo quando il mare aveva abbandonato la pianura padana in antiche ere geologiche. Acque salse, Ricche di preziosi minerali come iodio, bromo, zolfo e calcio, da cui già i Celti e i Romani estraevano il sale. Prima dell’avvento del frigorifero, il sale era il principale mezzo di conservazione. Si salavano il formaggio, il burro, il pesce e le carni. La parola “salume” indica ancora oggi tale pratica. Elemento indispensabile per la conservazione degli alimenti, il sale è stato, per millenni, una merce preziosissima e assai ricercata, utilizzata anche come moneta di scambio. Quello fossile, bianco, puro e meno amaro, era ancor più prezioso di quello marino.

Pare che una tribù dei Galli Celelati si fosse insediata su queste colline, dove estraeva il prezioso elemento, finché con il triumviro Quinto Minucio Termo, verso il 190 a. C., la zona fu occupata e la tribù sottomessa da coloni Romani, che un insediamento sul monte Castellazzo, a difesa delle saline e continuarono ad estrarre dai pozzi le acque di cui ormai erano ben noti i pregi. Tali insediamenti lasciarono notevoli testimonianze archeologiche sui colli circostanti e specialmente a Campore.

Le saline andarono distrutte verso l’anno 589 a causa di frane e terremoti. Ma lo sfruttamento delle sorgenti fu ripristinato nel 789. L’avvenimento fu talmente importante che lo stesso Carlo Magno nell’801, avrebbe concesso ai lavoratori dei giacimenti particolari esenzioni e privilegi per l’estrazione del sale. Magno donò i pozzi salsesi alla Chiesa di Borgo San Donnino (oggi Fidenza): passarono successivamente al Vescovo di Parma e a quello di Piacenza.

Dai pozzi si estraeva con i secchi una fanghiglia limacciosa (la “moja”) che veniva depurata e messa a bollire in larghe pentole di ferro poste sul fuoco di legna. Per secoli si praticò in questo modo, per evaporazione, l’estrazione del sale dalle acque sotterranee.

Per l’assoluta importanza strategica di questa attività, che rendeva autonomo il Parmense dalle saline costiere, nel Medioevo vennero eretti diversi castelli, a difesa dei pozzi di estrazione. Tra questi anche quello di Scipione nel parmense, detto anche “castello del sale” proprio perché posto a salvaguardia dei numerosi pozzi della zona.

Nella storia delle saline di Salso, ebbero un ruolo fondamentale i marchesi Pallavicino, tra i maggiori produttori di sale, che a quest’industria furono debitori di buona parte delle loro fortune.

Promuovendo lo sviluppo di nuovi pozzi e fabbriche intorno a Salsomaggiore, i Pallavicino ben presto detennero il controllo mercantile del sale in una vastissima zona.

Manfredo Pallavicino, dalla divisione dei beni paterni del 1227, aveva ereditato oltre a Scipione, anche la metà dei pozzi di sale dei due Salsi (Salsomaggiore e Salsominore), ricavandone grande agiatezza, come informa lo storico fra’ Salimbene de Adam da Parma, nella Cronica duecentesca dal linguaggio colorito: “messer Manfredo l’era un om de pace e pressoché religioso e amava i religiosi e le congregazioni monastiche, in particolare i Frati Minori. E dava il sale a tutti gli Ordini, abbondevolmente e senza carestia. Aveva nel distretto di Scipione molti pozzi salsi e s’è fatto così ricco e signore”.

Convenzioni stipulate nel 1270 con i comuni di Parma e Piacenza obbligavano i marchesi di Scipione a fornire mensilmente una certa quantità di sale a prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. In cambio però i Pallavicino ottennero per sé e per i propri uomini l’esonero dal pagamento di tutte le imposte reali e personali. Analoghi accordi furono fatti con i Visconti, poi con gli Sforza. Documenti del XVIII secolo provano che anche a distanza di secoli gli ultimi discendenti di Manfredo continuavano a godere di tali privilegi.

Una lunga diatriba giudiziaria, conclusa solo nel 1318, vide opporsi il Comune di Parma e i Pallavicino per il possesso di una serie di pozzi ubicati tra Scipione, Salsomaggiore, Salsominore e Tabiano. La sentenza finì con l’attribuire la maggior parte dei pozzi al Comune di Parma, per la precisione trentuno, come documenta una pergamena miniata conservata presso il locale Archivio di Stato, che riproduce un affresco e una scritta un tempo esistenti su una parete del palazzo comunale di Parma:

Isti putei quorum imago in presenti pariete depicta
est obtenti sunt per sententiam datam contra marchiones
de Sypiono in favorem magnifici et gloriosi populi civitatis Parmae”.

Questi pozzi, la cui immagine è dipinta sulla parete,
sono stati ottenuti per sentenza avversa ai marchesi
di Scipione e a favore del magnifico e glorioso popolo della Città di Parma.

Si può veramente affermare che la fisionomia del paesaggio collinare in questo territorio sia stata plasmata dalle saline e dal sistema dei “castelli del sale” preposti a difenderle: Tabiano, Bargone, Gallinella, Contignaco e Scipione. La posizione strategica delle fortificazioni era integrata dalle caratteristiche case-torri, la cui gestione era affidata alla popolazione fedele ai Pallavicino, che comunicava con il metodo dei fuochi e degli specchi. Con la costituzione nel 1545 del ducato di Parma e Piacenza, retto dalla potente famiglia Farnese, il territorio di Salsomaggiore passò sotto la proprietà della Camera Ducale e per estrarre l’acqua salata dai pozzi si utilizzarono carcerati condannati ai lavori forzati.

Anche nel XVII secolo i Farnese consolidarono l’industria del sale, introducendo sistemi di sollevamento per estrarre le acque dal sottosuolo. Resti di tali impianti sono ancora visibili a Salsomaggiore.

Con l’estinzione della dinastia Farnese, le saline divennero di proprietà dei Borbone, succeduti alla guida del Ducato, e, dal 1816 al 1847 a Maria Luigia. Dopo la nuova, breve parentesi borbonica, con l’annessione del Ducato al Regno d’Italia le acque salse passarono nel 1860 al Demanio Pubblico, che le ha amministrate fino ai nostri giorni.

La presenza di sorgenti e di pozzi di acqua salata e la possibilità di ricavarne sale, favorì notevolmente lo sviluppo della attività salumiera nel territorio parmense.

Il sale nostrano venne di gran lunga preferito a quello marino perché contiene iodio, bromo, zolfo in quantità più elevate. Lo iodio e il bromo, in particolare, sono sostanze che bloccano lo sviluppo dei batteri e favoriscono, quindi, la conservazione delle carni. L’utilizzo di questo particolare tipo di sale, ha indubbiamente aiutato il lavoro dei primi norcini che ottenendo buoni risultati, saranno stati invogliati a diminuire pian piano le quantità di sale, “inventando”, inconsapevoli, il “Parma”, quello dolce.

Bibliografia

E. DALL’OLIO, Il Prosciutto di Parma, Parma, Agenzia 78, 1989, pp. 24-28.

Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2006, pp. 276-277.