La Spalla di San Secondo tra storia e gastronomia

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Di Ferruccio Botti

Quando leggiamo nell’Allodi (I vol., p. 309) che i “chierici Giglio e Rolando, quali investiti del beneficio dell’altare di Sant’Agnese nella sottoconfessione della nostra basilica cattedrale, diedero a livello ai fratelli Lanfranco e Ubaldo un podere di 45 bifolche, nove sestari e 12 tavole, per l’annua prestazione di 4 soldi imperiali, 4 polli, 4 focacce ed una spalla…” noi restiamo perplessi, poiché l’atto risale nientemeno che all’8 luglio del 1184! Che si tratti proprio della spalla di maiale!

E rispondiamo subito che si tratta specificatamente della spalla di maiale e più propriamente della spalla di San Secondo. Non abbiamo che da aprire i volumi del Drei sulle Carte degli archivi parmensi e trovarvi moltissime volte citata la spalla di San Secondo come parte dell’affitto di terre, affitto pagato in natura, come da Giglio e Rolando suddetti.

Ecco una pergamena dell’8 febbraio 1170, riportata dal Drei a pagina 305 stilata precisamente a San Secondo: “In villa Sancti Secundi, juxta ecclesiam“, come scrive il notaio Pizzolese (o Puteolisius) per ordine dei canonici Alberto e Gregorio a nome del Capitolo che aveva terre “in curte Sancti Secundi” e che le aveva da lungo tempo date da lavorare a una cinquantina di famiglie con contratto verbale, steso ora in un “breve recordationis pro futuris temporibus“, pergamena che per ben cinque volte ricorda una spalla o spalle dovute da questi contadini ai canonici della cattedrale.

La frase che in dette pergamene spiega come il contratto steso in scrittura pubblica o notarile era già in vigore da molti anni quale “contratto verbale“, ci rivela a sufficienza come l’obbligo di una o più spalle in pagamento di affitto fosse dunque molto anteriore al 1100, onde la spalla stessa risulta più che millenaria nella sua fama documentata in questi contratti del Capitolo canonicale o della Cattedrale parmense.

Nel caso poi del contadino Alberto Abrici, oltre i soldi, i polli, le focacce, le noci, i carri di legna, due pasti e il terzo dell’uva e del frumento è detto con maggior precisione “et spatulam unam“, invece del solito “unam spallam” come in tutti gli altri casi. Qualsiasi vocabolario latino che si rispetti alla voce Spatula (s. f.) tradurrà: “La costa più larga del petto degli animali“, come voce in tal senso usata da Apicio, ossia dal più famoso cuoco dei Romani. Ne abbiamo abbastanza per capire la differenza da Spathula, ossia spazzola usata dai tessitori invece del pettine, o altro strumento usato dai latini per mescolare farmachi ed altre cose.

Ma altri documenti sempre conservati nel nostro Archivio capitolare e riguardanti i beni dei canonici al Pizzo di San Secondo e a Palasone parlano della spalla, come parte di pagamento di affitto o livello.

Interessantissima al riguardo la pergamena circa le terre di Palasone, recante la data 11 febbraio 1170, e scritta presso la chiesa di Palasone, anche per i beni di San Quirico, ossia in territorio che attorno a San Secondo (potremmo dire spalla a spalla… con San Secondo) produce e consuma e commercia in modo specialissimo spalle di maiale di quella qualità che ormai millenaria sa deliziare i palati dei buongustai.

In questa pergamena ben nove o dieci volte si parla di spalla o di denaro equivalente, ossia “Denarium pro spalla“. Dal che si ricava che alcuni contadini preferivano dare l’equivalente in danaro invece della spalla, da cuocersi e godersi in famiglia… Di tutte queste terre attorno a San Secondo ormai passate in proprietà private, restavano al Capitolo e ai Consorziali le irrisorie cifre di 5-10-15 lire come legati o livelli nei fondi stessi, alle quali cifre non pagate perché svalutate… non restava che fare… un’alzata di spalle.

Verdi era un appassionato della spalla di San Secondo. Egli aveva cercato anche di comperare la Rocca di San Secondo, per erigervi la Casa di Riposo per musicisti, e da una sua lettera al Conte Arrivabene abbiamo questa frase: “Io non diventerò feudatario della Rocca di San Secondo, ma posso benissimo mandarti una spalletta di quel santo“. La lettera è del 27 aprile del 1872 e prosegue: “Anzi te l’ho già spedita stamattina per ferrovia. Quantunque la stagione sia un po’ avanzata, spero la troverai buona. Devi però mangiarla subito prima che arrivi il caldo. Sai tu come va cucinata? Prima di metterla al fuoco bisogna levarla di sale, cioè lasciarla due ore nell’acqua tiepida. Dopo si mette al fuoco dentro un recipiente che contenga molta acqua. Deve bollire a fuoco lento per sei ore, poi la lascerai raffreddare nel suo brodo. Fredda che sia, ossia 14 ore dopo, levarla dalla pentola, asciugarla e mangiarla…“. Dopo alcuni cenni all’Aida, Verdi torna da capo: “Dunque occupati ora della spalletta e sappimi dire come l’hai trovata“. Che a Verdi piacessero molto le spalle di San Secondo ce lo attesta anche Italo Pizzi nelle sue “Memorie Verdiane“, nelle quali afferma che Verdi sin da giovane soleva recarsi a San Secondo a mangiarne in casa di un amico, tornando poi alle Roncole ancora in carrozza con un superbo gallo a cassetta… Ma molte altre volte troviamo in altri documenti dei cenni a questo squisito prodotto del Parmense, per cui vale la pena di seguire i volumi biografici di Franco Abbiati per trarne tutti quei cenni che servono a dimostrare la preferenza di Verdi per questo rinomato prodotto che, insieme col culatello, il prosciutto e il salame di Felino forma una quadrilogia gloriosa dei prodotti suini della fertile terra di Parma.

Emanuele Muzio, il fedele discepolo di Giuseppe Verdi, scriveva così dopo avere effettuato una sfacchinata a Firenze: “Viaggio felice nell’andata e felicissimo nel ritorno poiché il salame e le spalle sono passati trionfanti in mezzo a tutti i gabellieri… Alla Carossa però eravi un cane che annusava dietro il legno, e sicuramente che se noi non facevamo presto a partire ei ci faceva la spia“. Anche a quel cane dal buon fiuto, dunque, piaceva la spalla di San Secondo o almeno l’osso della medesima poiché è risaputo che generalmente la spalla è confezionata con l’osso nell’interno, più raramente disossata.

L’Abbiati fa notare come Verdi, che è a Firenze per preparare il “Macbeth“, si interessa molto del salume, della spalla, e poco dell’opera trovandosi in un periodo di svogliatezza.

Il 18 maggio 1843, scrivendo da Parma a Luigi Toccagni, Verdi dopo mille saluti ad amici e amici degli amici aggiunse: “Porterò meco la spalletta di San Secondo…“.

Durante la preparazione del “Falstaff“, nato a grande stento in molte delle sue parti, ai primi di ottobre del 1892 Boito e Giulio Ricordi si portarono a Sant’Agata con un teatrino da pupi dentro un sacco e diedero una rappresentazione dell’opera (Falstaff) in quel teatrino lillipuziano. “Si fecero le ore piccole, annota l’Abbiati, e si consumarono due spallette all’uso di San Secondo. Innaffiatissime come voleva la Giarrettiera“.

È meraviglioso osservare come questo genio trovi il tempo per regalare e insegnare gli amici il modo di cucinare un prodotto suino. Segno di precisione in tutte le cose, di pazienza, di amicizia vera che non si lascia intimorire dalla fatica di scrivere a lungo su un argomento tanto volgare o comunque secondario, secondarissimo davanti a un’opera in gestazione, a un ospedale da fondare per gli ammalati del suo Comune di Villanova d’Arda.

Ma ecco una lettera ancora più dettagliata in merito al modo di cucinare la spalla, tanto che ci pare perfino di sentire la voce della consorte Giuseppina Strepponi, la Peppina, dettare, essa cuciniera espertissima, e sorvegliante delle donne di servizio e del cuoco medesimo: Siamo nell’anno 1890, sempre in periodo di gran lavoro e preoccupazioni per la gestazione del “Falstaff“, quando scrivendo a Teresina Stolz e al “caro” Giulio Ricordi, aggiunge la ricetta per cucinare le spallette alla parmigiana. E, precisamente il 10 agosto 1890, un po’ tardi per cucinare spallette che in periodo estivo non sono così saporite come in primavera, ma comunque Verdi le ha trovate o nella sua dispensa, dimenticate o le ha comperate da qualche contadino del posto o più probabilmente comperate lui medesimo in uno dei suoi viaggi a San Secondo, col suo legno avendo a cassetta il gallo affezionato e pettoruto, ricordato dal Pizzo: “Allegata a questa mia riceverete anche dalla Ferrovia due spallette uso San Secondo, che noi mandiamo una per voi e l’altra per la famiglia Ricordi. Scegliete quella che volete, ma badate che per cuocere bene la spalletta bisogna:

1) Si mette in acqua tiepida per circa dodici ore, onde levargli il sale;


2) Si mette dopo in altra acqua fredda e si fa bollire a fuoco lento, onde non scoppi, per circa tre ore e mezzo, e forse quattro per la più grossa. Per sapere se la cottura è al punto giusto, si fora la spalletta con un curedents e se entra facilmente la spalletta è cotta;

3) Si lascia raffreddare nel suo brodo e si serve. Guardate soprattutto alla cottura; se è dura non è buona e se è troppo cotta diventa asciutta e stopposa.

Naturalmente le spallette piacevano moltissimo, e gli amici deliziati da tale saporito piatto parmense, ricambiavano regali, il più possibile, degni di reggere al confronto delle spallette. In questa occasione la Stolz e Giulio Ricordi, uniti nel dono ricevuto si uniscono anche nel dono di riconoscenza e spediscono una montagna di dolci“.

Quando Verdi scrive “spallette all’uso di San Secondo” induce a pensare che in quel caso si trattasse di spallette comperate a Busseto, dove, e nei suoi dintorni, se ne confezionano di molto buone, o anche a lui regalate o portate come appendice di contratto di mezzadria o di affitto dai contadini dei suoi poderi.

Nella vita di Mons. Vitale Loschi, che fu Vescovo di Parma dal 1831 al 1841, leggiamo che tra i cibi a tavola preferiva la spalla di San Secondo: “benché la spalla di maiale nomata di San Secondo fusse pure la vivanda per essolui la più diletta, stava contento a piccola porzione…“, come Vescovo e come ottantenne!

Il Molossi, dopo aver descritta l’ubicazione di San Secondo, dice: “la vicinanza con tali luoghi contribuisce a renderne, quant’è, fiorentissimo il mercato che vi si tiene ogni mercoledì, massimamente di granaglie, di cui si spacciano annualmente 6.585 quintali (eravamo nel 1810-30), di porci, di buoi, di pollame, tele caserecce e cavalli”. Ma di rincalzo, dopo la cronistoria della Rocca e della famiglia Rossi, aggiunge: “Vi abbonda il bestiame bovino e porcino, di cui si fa molto traffico. I salati che si fabbricano in San Secondo riescono a perfezione: ma soprattutto hanno buon nome e spaccio le cosiddette spalle che prendono il nome dal paese stesso…“.

Il Malaspina (1850) alla parola “Spalla” scriveva: “specie di Prosciutto ammagliato che si fa con la Spalla di maiale. Il migliore ed il più celebrato di questi salumi si fa a San Secondo, borgata del Parmigiano“.

Tratto da: “SAN SECONDO – Arte, storia, attualità”. San Secondo, Centro Turistico Giovanile e Amministrazione Comunale di San Secondo Parmense, 1970.