Storia sociale della razza suina parmigiana

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Di Giovanni Ballarini

Premesse

Il misterioso Popolo delle Terremare, i Celti e gli Etruschi, seguiti dai Romani e dai Longobardi hanno abitato il territorio di Parma, che poi ha visto lo sviluppo del Comune, Signorie, Ducati fino a divenire, con la costituzione del regno d’Italia e poi dell’Unione Europea, la capitale di un’inimitabile valle del cibo e della gastronomia.
Una lunghissima storia si dipana a Parma per oltre 4.500 anni, durante la quale, in uno stretto rapporto zoo-antropologico, prima il cinghiale e poi il maiale hanno assunto via via il ruolo di simboli magici, marcatori culturali, preziosi strumenti di valorizzazione del territorio, cibo per il corpo e per l’anima popolare, origine d’inimitabili prodotti tipici, dal prosciutto al culatello, elementi d’arte gastronomica.
Il rapporto che durante quarantacinque secoli l’uomo, a Parma, ha stabilito con il maiale, ha dato avvio e sviluppo ad una storia e ad una sociologia che contribuiscono a spiegare il successo dell’agro-industria parmigiana. Da un punto di vista culturale il fenomeno parmigiano trascende i limitati confini territoriali ed assume significati antropologici generali.
Mai come nell’attuale periodo, la conoscenza delle proprie radici culturali, antropologiche e zoo-antropologiche, serve per mantenere e sviluppare l’individualità necessaria per affrontare e dominare le sfide di una globalizzazione, tanto intensa, quanto rapida.
Nell’ambito di una Storia Sociale del Maiale Parmigiano si pone in primo piano la questione della Razza Nera Parmigiana ed del suo auspicabile ricupero.

Maiali padani, una storia in gran parte ancora da scrivere

Molto complessa e tutt’altro che chiarita è l’esatta origine dei maiali domestici italiani e soprattutto le vie attraverso le quali si sono formate le razze che sono arrivate fino al XVII secolo dell’era corrente. Gran parte della storia dei maiali italiani, inoltre, è ancora da scrivere, anche se non sono mancate, in passato ed in particolare tra la fine del secolo XIX e la prima metà del XX, descrizioni delle loro razze, in generale nell’ambito d’esposizione più ampie.

Un nuovo interesse alle razze italiane si è risvegliato recentemente, per opera soprattutto d’alcuni studiosi che ne hanno riconosciuto il particolare valore sotto diversi aspetti. Nell’ambito della conservazione della biodiversità animale, costituendo anche una “banca del germoplasma” suino, è da segnalare la diuturna attività del Prof. Donato Matassino dell’Università di Napoli e dei suoi allievi.

Un ulteriore interesse per le razze suine autoctone italiane è stato il recente successo dei prodotti salumieri tipici, soprattutto quelli a marchio DOP, IGP e Tradizionali, che ha spinto al ricupero, per una valorizzazione di qualità, delle razze suine dalle quali i prodotti salumieri erano nati e si erano sviluppati.
Si deve tuttavia rilevare uno scarso interesse, soprattutto a livello mondiale, per le razze suine italiane autoctone, nonostante il ruolo che alcune d’esse hanno avuto nella costruzione di razze d’importanza divenuta mondiale, come la razza Yorkshire e soprattutto la sua varietà Large White, nelle cui vene scorre anche sangue della razza suina Napoletana. Ad esempio, l’ormai classica monografia di Epstein e Bichard (1984) solo di sfuggita cita la razza Napoletana e non é neppure esaminata, con la necessaria attenzione e come sarebbe stato opportuno, la questione del maiale mediterraneo, al quale partecipano le razze suine autoctone italiane.
In questa sede non si ritiene dovere approfondire la storia antica del maiale domestico italiano, salvo alcun rapidi cenni introduttivi, rimandando alla monografia di Dancer (1984) e, per un inquadramento generale e nonostante i già indicati limiti, al lavoro di Epstein e Bichard (1984).

Maiali delle terre alte e della bassa parmigiana

Nell’Ottocento, puntualizza Zannoni (1999), il quasi totale disboscamento dei territori parmigiani di pianura e collina provocò la fine del pascolo per i suini, che nelle terre basse incominciarono ad essere allevati solo in rustici porcili familiari od annessi ai caselli di lavorazione del latte.
Questo fu possibile, non solo come evoluzione dell’allevamento familiare o di quello da ingrasso presso il casello di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano, ma anche per l’utilizzazione di granaglie di sottoprodotti artigianali, ad iniziare dalla crusca che, è bene ricordare, anche agli inizi degli anni Cinquanta del secolo XX, era ritenuta assolutamente indispensabile per l’allevamento del maiale nei caseifici.
Una produzione suina che tuttavia era ridotta, soprattutto per due limiti: quello della produzione di suinetti, effettuata a livello locale, e quello della stagionalità nella produzione di siero di latte (tradizionalmente dal 19 marzo all’11 di novembre). Questi limiti saranno superati con l’importazione dei “magroni” anche da regioni distanti e con l’estensione del periodo di produzione del formaggio grana (prima con il “vernengo”, poi con la produzione di Parmigiano Reggiano durante tutto l’anno).
Nelle terre alte appenniniche, invece, le antiche pratiche si ridussero negli anni Trenta del XX secolo a seguito dell’estensione dell’agricoltura per la “battaglia del grano”, ma in parte continuarono a sopravvivere.