Sanaporcelle, Cozzoni, Norcini e Mazén vagabondi dei porci nel Medioevo

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Di Giovanni Ballarini

GIAN LUIGI UBOLDI, Il Norcino all'opera. Ex Libris, 1984 - Collezione Gian Carlo Torre, Genova.
GIAN LUIGI UBOLDI, Il Norcino all’opera.
Ex Libris, 1984 – Collezione Gian Carlo Torre, Genova.

Il fenomeno del vagabondaggio, in tutte le sue forme (1), rispecchiava l’estrema mobilità di una parte della società medievale, che nel suo interno aveva una cospicua “population flottante” (2), un fenomeno peraltro ben noto e sul quale Le Goff (3) giunge ad affermare che “la mobilité des hommes du Moyen Age a été extrême, deconcertante”.

Tra i vagabondi o itineranti, Piero Camporesi (4) cita mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi (colporteurs), monaci questuanti, o vaganti in fuga dal convento, frati perdonatori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti, cortigiani e cantastorie, studenti itineranti chiedenti la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori d’ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri: perfino l’amore diventava “peregrino” e l’innamorato si travestiva da giramondo. Dagli ultimi decenni del Quattrocento (5), accanto agli zingari compaiono gli artigiani ed i lavoratori itineranti: tessitori, calderai, seggiolai, arrotini, impagliatori e muratori, i maestri e gli apprendisti delle arti mobili, e tutta la schiera innumerevole degli artigiani stagionali che abbandonavano le loro terre e le loro vallate e contrade per esercitare il mestiere in stagioni brevi o lunghe in altri paesi e contrade, ed ogni gruppo con il proprio linguaggio “corporativo” o gergo segreto (la lingua occulta) con gli abiti-divisa (o con gli abiti-travestimento), coi suoi santi, le cantilene e salmodie, le sue pentole, i suoi sogni; e le strade con taverne, le locande invitanti sotto l’insegna e il mazzo d’agrifoglio, i ponti con i loro custodi, le porte delle “terre”, gli ospizi, le abbazie, i conventi, i cenobi, le foresterie, gli ospedali dei poveri e dei pellegrini… Tra i mestieri legati alle stagioni, ai viaggi, agli spostamenti e quindi al vagabondaggio, nell’Italia del Quattro-Cinquecento vi erano (6): maestri sonatori di ribecchini, tagliatori a tavola (trinciatori), arcieri, venturieri, cozzoni o sensali, pescatori all’aringhe, intagliatori, coltellinai, stagnai, campanai, suonatori di trombone, scoppiettieri, minatori e via dicendo. Non bisogna inoltre dimenticare che nella trascorsa “civiltà della piazza”, quando la vita popolare trovava per via il luogo ove incontrarsi, anche la cucina di strada trovava il suo spazio, con i suoi “girovaghi del cibo”, gli ambulanti: trippai, mellonari, bibitari, sorbettieri, perecottai, venditori di castagnaccio o di castagne arrostite e cento altre figure, spesso in rapporto con gli artigiani itineranti e tra le quali il porchettaio o venditore di porchetta, spesso versione cittadina degli esperti nell’uccisione e lavorazione delle carni di maiale (mazin o mattatore o massino, norcino o norcinaio, lardarolo ecc.) (7).

Da una parte un Medioevo local et sédentaire, legato alla terra, fino ai servi della gleba, dall’altra un Medioevo “nomade et européen” (8). Pertanto il fenomeno del vagabondaggio, come quello dei mestieri itineranti, è stato oggetto d’indagini da parte di diversi ricercatori, passati (9-10) e recenti (11-12-13).

Tra questi ultimi vi sono quelli che hanno un’attinenza ai maiali, dal loro allevamento, commercio, macellazione fino alla trasformazione e soprattutto salagione delle loro carni. In questi mestieri collegati al maiale, come vedremo, il “rosso” sembra avere importanza.

Per quanto riguarda quest’animale, tuttavia, altro vi sarebbe da dire sul “rosso”: in un tempo ancora a noi vicino, vi erano le “malattie rosse” del maiale, sulle quali vi sarebbe peraltro molto da dire14, ad iniziare dalla loro denominazione. Le “malattie rosse” del maiale non sono considerate in quest’esposizione.

Limitata attenzione è stata data al vagabondaggio e soprattutto ai mestieri itineranti collegati al pur importante allevamento dei maiali ed in particolare al loro commercio, uccisione e trasformazione in carni salate, anche se vi è stato un certo interesse per l’attività artigianale dei “sanatori” o castratori di maiali o “castrini”, in modo particolare delle femmine, e dei lavoratori di carni suine con la loro trasformazione in carni salate e salumi, i cosiddetti mazellatori (15) che nell’Italia centrale sono stati denominati “norcini”.

I mestieri itineranti collegati ai maiali hanno suscitato recentemente interesse soprattutto da parte degli antropologi. Al riguardo, sono da ricordare le menzioni, per i norcini, di G. Ballarini (16) e, per i castrini ed altre attività suine, di Claudine Fabre-Vassas (17). Un’autrice che, in modo singolare, ha denominato almeno parte dei vagabondi e itineranti collegati al maiale, come uomini rossi (18). In contrasto, aggiungiamo noi, con i maiali neri (19).

Tra gli uomini rossi, vagabondi o di mestieri itineranti dei maiali, sono da menzionare i porcai pascolanti o transumanti, i cozzoni o commercianti di porci, i castrini o sanaporcelle ed infine i macellatori di maiali e salatori di carni suine, o norcini e, per quanto riguarda la Francia (20), i langueyeur o “ispezionatori della lingua”, che nel commercio dei maiali, garantivano l’assenza di una malattia che oggi conosciamo come cisticercosi (21).

Il collegamento tra i mestieri itineranti dei maiali e gli uomini rossi non è stato ancora adeguatamente approfondito, anche se vi sono interessanti piste interpretative, basate anche su recenti indagini non solo d’ordine biologico (22), ma anche antropologico e sociologico (23), che saranno anche riprese ed ampliate al termine di quest’esposizione.

Dalle ricerche biologiche, considerando l’origine genetica polifattoriale e il notevole polimorfismo che conduce al colore rosso dei capelli e altre fanere, risulta chiaramente l’importanza della segregazione genetica, che giustifica la relativamente bassa percentuale di persone con questo carattere, ma anche come queste persone possano essere più frequenti in determinate comunità “chiuse”, come un tempo erano ad esempio quelle scozzesi ed irlandesi.

Dalle indagini sociologiche è confermata la qualifica per le persone dai capelli rossi di “diversi”, con una connotazione “negativa” (24). Una qualificazione “negativa” che era attribuita anche a professioni collegate al sangue, soprattutto la macellazione degli animali, in particolar modo quando questa era compiuta su di un animale divenuto familiare, come il maiale.

All’uomo “diverso” e soprattutto se ben identificato dal suo “colore rosso”, che “veniva da lontano”, portatore di conoscenze particolari (come quella di conservare un alimento delicato e vitale come la carne) poteva essere affidato il compito di “sanare” il proprio maiale, o di ucciderlo e trasformarne le carni.

Il pascolo è stato per moltissimo tempo il sistema più diffuso d’allevamento dei maiali, pur coesistendo con una fase di stabulazione.

Indicative sono le prime testimonianze letterarie, ad iniziare da quella dell’allevamento omerico, descritto nell’Odissea, costruito e condotto da Eumeo, e nel quale i porci sono condotti al pascolo di giorno, ma la sera sono ricoverati in recinti. Il guardiano di porci è anche un personaggio biblico.

Molto limitata, e quasi assente, è una transumanza porcina, se si esclude – com’è doveroso menzionare – il trasporto a piedi degli animali, come quello eseguito dal porcaio omerico Eumeo, che con un viaggio di circa un giorno, ad intervalli regolari, guida qualche maiale dal suo allevamento alla reggia dove banchettano i Proci. In modo analogo, non è da ritenere transumante il piccolo gruppo di maiali, spesso ridotto ad una sola scrofa con i suoi piccoli, che può associarsi ad un gregge di pecore, questo sì transumante, al fine d’utilizzare i sottoprodotti del latte, come tuttora avviene in Sardegna.

Sull’allevamento pascolativo dei maiali, in parte selvatici, esiste una vasta letteratura e solo per il periodo medievale italiano è sufficiente citare, tra i tanti, Baruzzi e Montanari (25), e Montanari (26). A questo riguardo è da rilevare che i maiali del passato, soprattutto quelli mediterranei, erano di colore nero o scuro, pur non mancando quelli rossi o con macchie o strisce bianche (ad esempio la Cinta Senese) (27).

Non è certamente un caso che in tedesco il cinghiale, o maiale selvatico, è detto la “bestia nera”.

Il cozzone (28), sensale o mediatore nel commercio dei maiali, aveva ed ancor oggi mantiene un ruolo che si è andato modificando, almeno in parte. Un tempo riguardava soprattutto i maiali da vita, ora quelli da macello.

Una figura che non si limitava soltanto a “mediare” un contratto, ma che spesso diveniva al tempo stesso acquirente e venditore, in particolare di maiali.

In un passato che arriva fin quasi a noi, nella prima metà degli anni Sessanta del secolo XX, i commercianti di maiali da vita percorrevano le campagne dell’Italia centrale, soprattutto della Toscana e dell’Umbria, acquistando dai contadini giovani maiali (29) che, una volta raccolti, vendevano e portavano ai caseifici della pianura padana, dove erano ingrassati.

Un’attività itinerante che scomparve quasi completamente quando, a seguito dell’arrivo in Italia della peste suina di tipo africano, il commercio dei giovani animali di produzione contadina venne quasi completamente a cessare, mentre rimase quello tra allevamenti industriali specializzati. In quest’ambito mutò anche la figura del commerciante di maiali.

Nel passato, il sensale di maiali era un itinerante anche quando si spostava di fiera in fiera, dove si commerciavano maiali d’allevamento.

I contadini potevano acquistare una scrofa da far riprodurre, mentre i braccianti agricoli un maialetto da allevare ed ingrassare con gli scarti domestici.

In questi casi il sensale poteva intervenire nella contrattazione degli animali di maggior pregio, anche perché testimone e garante della loro qualità, soprattutto sanitaria.

Il maiale commercializzato – analogamente ad altri animali – doveva essere “sano e da galantuomo”, vale a dire non avere vizi o malattie occulti ed in particolare non essere affetto da malattie croniche ed invalidanti, in particolare di quella malattia ora nota come cisticercosi, causa della panicatura delle carni o carni grandinose.

A questo proposito, non risulta esistesse, in Italia, una figura specializzata nel garantire che il maiale con carni panicate o grandinose non fosse “lazzarino”, come invece avveniva in Francia dove operavano i langueyeur. Una condizione, quell’ora accennata, che merita d’essere chiarita, partendo da quanto era noto nel secolo XVII ed esposto da Vincenzo Tanara (30), di cui riportiamo un brano adattato all’odierna grafia.

“Devesi ancora avvertire alla carne grandinosa, da noi detta Lazarina, questo conoscesi, che tra la carne magra si vedono segni bianchi, quasi grane di miglio. Questa carne per la sua molto umidità, è malissimo sana, si come per la sudetta causa non riceve il sale. Però i porci con tale imperfetto non sono buoni da altro, che da far sevo. Crederei però, che salati in salamoia molto mordente, o all’infrascritto modo di Columella, si potessero e salare e successivamente sal presi, senza nocumento mangiare, presupponendo che dal sale ogni superflua humidità nociva fosse rasciugata. Il lattante non è mai grandinoso, ancorché straordinariamente humido: con levar dalla schiena del porco, se è sanguinosa, si fa concetto, che il porco sia grandinoso, o lazarino. Si vede ancora nella sommità della lor lingua, ancorché vivi, quei segni bianchi che a miglio rassomigliano.”

Per meglio comprendere il testo è utile ricordare che la malattia del maiale di cui si parla è oggi nota come cisticercosi, fase larvale nel suino del parassita Taenia solium, che nell’uomo si manifesta come “verme solitario” e che il maiale contrae mangiando le feci, o cibi contaminati con feci umane contenenti il parassita. I cisticerchi hanno dimensioni diverse: da quelle di piccoli chicchi di grandine, a quelle di grani di miglio o di panico (da qui le dizioni di carni grandinose o panicate).

Nella concezione del tempo tali carni erano difettose, non pericolose, in quanto al tempo non si conosceva il ciclo del parassita, conoscenza raggiunta solo nel secolo XIX.

Era però noto che gli animali avevano una condizione che li rendeva scadenti e quindi da lazzaretto (da qui la denominazione di lazarini e di carne lazarina).

Corretta l’idea espressa dal Tanara che una forte salagione potesse essere vantaggiosa: infatti in queste condizioni il parassita viene inattivato.

Corretta è anche l’osservazione che il lattante non è colpito dal parassita, che ha bisogno di tempo per svolgere il suo ciclo e quindi si può manifestare solo in animali slattati.

Non corretta era invece l’opinione che assimilava i noduli della cisticercosi del maiale a quelli della tanto temuta lebbra umana (nella sua forma nodulare).

Su questa similitudine, peraltro grossolana, almeno fino alla prima metà del XIX secolo si formarono delle vere e proprie mitologie sanitarie, che riguardavano anche l’alimentazione. Ad esempio si era voluto vedere una connessione tra l’uso alimentare della patata nei maiali e la loro “lebbra”, con tutte le conseguenze sull’uso della patata in alimentazione umana.

Solo con la forte riduzione della lebbra dalle popolazioni umane europee (un fenomeno ancora da decifrare, forse conseguenza della diffusione della tubercolosi (31)) e l’individuazione dell’esatta causa della cisticercosi suina, cadde anche l’idea di una “lebbra suina”. La parassitosi da cisticerchi del maiale si manifesta in modo diseguale nei muscoli.

Sono colpiti soprattutto in alcuni e, tra questi, quelli della lingua, dove sono visibili, anche nell’animale in vita, come grani della dimensione del miglio.

È qui che poteva intervenire la conoscenza del commerciante di maiali o, come in Francia, il sopra citato langueyeur, che ha l’evidente etimologia d’ispettore (voyeur) della lingua (langue), che poteva garantire al compratore un maiale “sano e da galantuomo”.

Sanato, voce antica o regionale – riportano i dizionari – che significa castrare, togliere od inattivare le ghiandole sessuali, maschili o femminili; viene anche riportata la dizione “sanare le scrofe”.

Sanato, soprattutto in Piemonte, è il vitellone castrato, dal quale deriva il bue grasso, che ha dato tanti celebri piatti della cucina locale, ad iniziare dai bolliti.

Che i termini sanare e sanato siano presenti soprattutto nel Piemonte, non deve stupire, in quanto derivano da corrispondenti termini antichi della lingua d’Oc o provenzale (32), come anche recentemente ha segnalato Claudine Fabre-Vassas (33).

Anche in altre regioni d’Italia, ad esempio in quelle meridionali, vi era il termine di sanaporcelli, come vedremo oltre.

Inoltre, nei dialetti romanzi ed in quello piemontese antico castrare si dice anche regulare o regolare, od anche affranchir o liberare dalla “turbolenza degli umori”.

Castrare o sanare gli animali (e l’uomo, soprattutto come sistema di “cura” dell’ernia inguinale), era un’operazione di chirurgia con diverso grado di difficoltà: alta nelle femmine e bassa nei maschi.

Ma da dove deriva il termine “sanare” che a dire il vero dovrebbe significare “rendere sano”, da cui il più diffuso termine “risanare”?

Bisogna risalire alle concezioni mediche antiche, soprattutto medievali, quando alcune fasi dei cicli sessuali o delle regole femminili, erano ritenute impure e quindi non sane. In modo analogo è per il termine, caduto in disuso, di “regolare”.

Nel passato si riteneva che i cicli sessuali femminili e soprattutto alcune loro fasi (il calore o estro nelle femmine animali e le mestruazioni nella donna) comportassero una “turbolenza degli umori” capace di rendere cattivo l’accrescimento corporeo, ma soprattutto peggiorare la qualità delle carni e la loro conservazione.

Per le femmine, la castrazione, si credeva eliminasse le “impurità” d’umori cattivi, purificasse l’animale e lo rendesse “sano come il ferro”, con una carne “fredda” e stabile come il metallo, di facile conservazione.

Per il maschio ci si era accorti che la presenza degli organi sessuali comportava variazioni significative nel colore delle carni e nella quantità di grasso (carni magre).

Quando la castrazione era riuscita bene, erano cancellati gli istinti sessuali e la carne migliorava: più chiara, tenera a grassa.

La carne dei maschi interi era ritenuta “riscaldante”, infetta e per il maiale avvicinata a quella degli animali “lazzarini” (dal Lazzaro, povero ammalato della parabola evangelica) e colpiti da cisticercosi o panicatura (espressione di un’infestione da larve di tenia).

Nel passato, castrare non significava mutilare, ma guarire (da cattivi umori) e risanare o sanare.

Una sanità che permette un rapido accrescimento e, in modo particolare, avere carni bianche, grasse e “sane”. Carni sulle quali si è costruita una cucina tradizionale di gran pregio, in tutte le specie, ma in modo particolare vitelli, vitelloni e buoi “sanati”, maiali “sanati” e, non ultimi, i capponi.

Chi castrava i maiali?

La castrazione dei maschi era eseguita dai contadini, che intervenivano sui maialetti di poche settimane, asportando i testicoli.

Per le femmine le cose erano diverse, in quanto le ovaie sono interne e si sviluppano solo ad una certa età.

La castrazione delle femmine è una vera e propria operazione chirurgica, che è stata ben descritta da Carlo Levi, un medico scrittore che l’ha vista compiere da un sanaporcelle, un castrino itinerante che, è un caso?, è un “uomo rosso”, come per ben due volte viene precisato.

“Donne, è arrivato il sanaporcelle”, era il grido che seguiva lo squillo della tromba del banditore, nel paese di Gagliano di cui Carlo Levi dà un quadro antropologico a metà degli anni Trenta del secolo trascorso (34).

Il sanaporcelle descritto da Carlo Levi era “…un uomo alto quasi due metri, e robusto, col viso acceso, i capelli rossi, gli occhi azzurri e dei gran baffi spioventi, che lo facevano assomigliare a un barbaro antico, a un Vercingetorige, capitato per caso in questi paesi di uomini neri. Era il sanaporcelle. Sanare le porcelle significa castrarle, quelle che non si tengono a far razza, perché ingrassino meglio, e abbiano le carni più delicate. La cosa, per i maiali, non è difficile, e i contadini la fanno da soli, quando le bestie sono giovani. Ma alle femmine bisogna togliere le ovaie, e questo richiede una vera operazione di alta chirurgia. Questo rito è dunque eseguito dai sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi. Ce ne sono pochissimi: è un’arte rara, che si tramanda di padre in figlio. Quello che io vidi, era un sanaporcelle famoso, figlio e nipote di sanaporcelle; e passava di paese in paese, due volte all’anno, a eseguire la sua opera”. Nella sua azione, continua lo scrittore, “l’uomo rosso si ergeva possente…” e il quadro chiude ricordando che “il sanaporcelle era partito la sera stessa per Stigliano, coperto da benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote druidico, e il coltello del sacrificio.”

Per meglio inquadrare l’attività del castrino è bene ricordare quanto recentemente precisato da Fabre-Vassas (35). In Italia centrale tra i castrini dei maiali, detti anche castraporcelli, erano celebri quelli di Norcia, denominati anche norcini, un termine che poi a Firenze venne esteso fino ad indicare il macellatore di maiali e, successivamente, di trasformatore delle carni dell’animale macellato, termine ancora in uso.

Ma il norcino, come precisa la citata Fabre-Vassas, era anche colui che castrava i bambini, con una pratica oggi ritenuta giustamente inquietante, ma che per diversi secoli ebbe un non trascurabile ruolo in Italia (36).

“Qui si castrano ragazzi a buon mercato” (37) era un’insegna che si trovava esposta in alcune botteghe di Napoli tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.

Alla fine del XVI secolo, Orazio da Norcia, secondo quanto riferisce un chirurgo del tempo, castrava ogni anno circa duecento bambini.

Durante il XVIII secolo le opere teatrali fanno ampie allusioni ai castrati e nel 1804, un medico di Montpellier (38), ricorda che “cette opération était faite en Italie par des barbiers connus sous le nom de norcini”.

Tra questi bambini castrati, alcuni facevano carriera come cantanti. Tutto fa ritenere – di questo avviso è la già citata Fabre- Vassas – che il norcino, specialista del maiale, potesse logicamente castrare anche i bambini e ragazzi ed è anche avvenuto d’altronde, di tempo in tempo, che al di fuori dall’Italia, un illustre castratore d’animali sia sollecitato ad operare degli uomini, per la convinzione che il suo potere dovesse estendersi fino a questi (39).

Ma perché si castrava?

Il quesito e la risposta esulano in buona parte dalla presente esposizione, ma è necessario precisare che la castrazione era un’operazione che s’associava all’intervento di riduzione dell’ernia inguinale, una condizione, un tempo – forse – ben più frequente da quell’odierna, molto probabilmente per le cattive condizioni di nutrizione e quindi di rilassamento dei tessuti addominali.

Fino all’inizio del secolo XX, il maiale era allevato in campagna presso le case di contadini e limitato era l’allevamento, spesso solo d’ingrasso, presso caseifici, utilizzando il siero di late, oppure sfruttando il pascolo.

La macellazione e la successiva lavorazione delle carni erano compiute dal norcino (denominazione dell’Italia centrale), chiamato nell’Italia settentrionale mazén od in altro modo similare con varianti da regione a regione.

Era, questo, un artigiano come per altre attività itineranti (cordai, calzolai, ombrellai, sarti e così via) che si spostava di podere in podere (Ballarini (40), Pedrocco (41) ) e svolgeva un’attività stagionale, di solito di persone ch’esercitavano un altro mestiere.

I salumi ricavati dalla macellazione erano destinati all’autoconsumo agricolo e urbano (dove vigeva la mezzadria), o allo smercio nei mercati locali, nei negozi di generi alimentari misti delle campagne, e nelle non frequenti norcinerie o pizzicherie, poi divenute salumerie, delle città.

Norcino o mazén?

Quale origine del nome di chi uccide il maiale e ne lavora le carni? La domanda sembrerebbe oziosa per molti e avrebbe due risposte, come in parte preannunciato. Coloro che abitavano nelle regioni italiane settentrionali, possono dare la risposta di mazén, termine per il quale vi è un collegamento con i termini medievali di mazello nella lingua d’oc. Già indicate altre denominazioni ad esempio presenti nella pianura padana (masìn a masalìn, masèr, massarìn, mazén ecc. (42) Chi abitava in Italia centrale dà la risposta di norcino, con riferimento agli artigiani di Norcia, cittadina dell’Umbria e patria di San Benedetto.

Come in parte già considerato, tali artigiani sarebbero stati particolarmente abili nella lavorazione delle carni di maiale, tanto che ancor oggi, a Roma, la vendita dei salumi avviene nelle norcinerie.

Una spiegazione, quest’ultima, troppo semplice per convincere e che non trova giustificazioni dirette, a meno di non accettare una giustificazione indiretta.

Oltre a quanto sopra ricordato è opportuno menzionare che nelle campagne medievali iniziarono ad essere attivi i citati Norcini, che presso i contadini che allevavano i maiali domestici o semibradi, e coloro che cacciavano i maiali selvatici (cinghiali), esercitavano l’arte di sezionare il maiale e di lavorarne le carni, trasformandole in prodotti salumieri.

Una corporazione, quella dei Norcini, che per la loro attività sembra abbia avuto rapporti con quella dei chirurghi (43), o con professioni, quali – come si è visto – quella della castrazione dei bambini e ragazzi.

È qui che s’inserisce una linea interpretativa di tipo indiretto.

Nei secoli passati, quando le sezioni anatomiche umane erano proibite, molta anatomia umana fu conosciuta in via indiretta attraverso lo studio del maiale, ritenuto l’animale più simile all’uomo.

Di una buona conoscenza anatomica avevano bisogno i chirurghi, che esercitavano un’arte “meccanica” ed intervenivano sulla “macchina umana”, diversamente dai medici che si dedicavano alla cura della parte spirituale dell’uomo. Inoltre le scuole mediche e chirurgiche erano nettamente separate.

Le prime erano collegate agli studi ecclesiastici e soprattutto delle Universitas, le seconde, invece, erano di tipo si può dire “artigianale” e strutturate come altre attività professionali artigiane. In questa seconda prospettiva, nel secolo XV, in Italia, divennero celebri delle vere e proprie dinastie di chirurghi residenti o provenienti a Norcia nella provincia di Perugia, e nel borgo di Preci nel mandamento di Norcia.

Con il nome di Norcini e Preciani furono indicati i primi fra questi chirurghi dei quali si ha notizia vissero nel millequattrocento e Scacchi delle Preci (preciano) fu medico del Re di Francia; più tardi un altro celebre norcino, Benedetto da Norcia, fu professore a Perugia e medico di Papa Sisto V e di Francesco Sforza (44). Vedremo oltre che i chirurghi in questione erano anche chiamati Medici Empirici Norcini.

Norcino, nel passato, in Italia ed in Francia, indicava quindi un chirurgo particolarmente esperto sia nell’anatomia, sia nel trattare le malattie della “macchina” umana, traendo le sue conoscenze da osservazioni sviluppare sul maiale.

Un titolo, o una vanteria della quale poteva appropriarsi anche chi, senza essere chirurgo umano, forse lo aiutava nella ricerca sull’anatomia suina (45).

Un titolo o vanteria, ripetiamo, che poteva nobilitare un’attività, quella dell’ammazzatore di maiali e di salatore delle loro carni, indubbiamente di non elevato prestigio. Un titolo, infine, che poteva essere speso soprattutto in città nelle quali erano ben noti i chirurghi di dinastie norcine.

Una semplice ipotesi per una spiegazione trasversale?

Quanto ora diremo tende a far ritenere significativa l’indicata ipotesi che i norcini che lavoravano le carni di maiale trassero origine dai chirurghi che operavano sull’uomo.

Nel secolo XVII, a Firenze, all’epoca dei Medici, vi è la Compagnia dei Facchini di San Giovanni Decollato della Nazione Norcina. Il Papa Paolo V, con la bolla Pastoris aeterni (6 novembre 1615), riconobbe la Confraternita Norcina dedicata ai santi Benedetto e Scolastica che, otto anni più tardi, il suo successore Gregorio XV elevò ad Arciconfraternita alla quale, nel 1667, aderì anche l’Università dei Pizzicaroli Norcini e Casciani e dei Medici Empirici Norcini (si sono già ricordati i rapporti con la medicina “meccanica” umana).

I norcini estesero la loro attività anche al di fuori dello Stato Pontificio e svolgevano un’attività stagionale partendo dai loro luoghi d’origine, soprattutto Norcia e Cascia, fino ad arrivare a Firenze ed a Roma.

L’attività dei mazén o “norcini” era prevalentemente contadina. Questi artigiani, nel periodo invernale, si recavano presso le singole fattorie o case padronali, dove effettuavano l’uccisione del maiale e la sua trasformazione in salumi, secondo le richieste del proprietario.

Per queste attività il norcino era noto anche ai cittadini, senza considerare il fatto che, almeno per Roma, il norcino durante i mesi estivi svolgeva solitamente l’attività di venditore itinerante di cappelli di paglia (46).

Sulla origine tradizionale dell’esperienza del norcino è interessante anche la recente testimonianza di Caleffi e Mazzali (47) che, ricuperando conoscenze mantovane della seconda metà del secolo XX riferiscono che “la perizia, il norcino l’ha ereditata dal mastro, di cui per anni è stato l’aiutante; stando a bottega si è impratichito dell’arte del macellare, sezionare e confezionare tutte le parti del maiale, in modo che i prodotti ottenuti si possano conservare tutto il tempo dell’anno anche se non abbiamo ancora locali abbastanza freddi che aiuterebbero a preservare per lungo tempo alimenti di facile deperibilità”.

In una certa misura, ma non tanto, gli artigiani itineranti che operano a contato con i maiali, sono da collegare alle figure professionali che si dedicavano all’alimentazione umana e che nel passato si erano organizzate in corporazioni o confraternite, che possiamo conoscere tramite i loro statuti, ma che ben poco c’informano sulle tecniche di produzione e sulla qualità dei salumi.

Dagli statuti bolognesi del XIII secolo (48) sappiamo che i macellai potevano macellare maiali e venderne le carni. Durante il periodo che andava dai Santi (1° novembre) a tutta la quaresima, potevano anche salarne le carni, ma non venderle. Secondo Fanti (1980), nel tardo secolo XIII, a Bologna, le uniche cose che i beccai potevano inoltre acquistare dai beccai “autonomi” erano il lardo, la sunza (grasso dei visceri del maiale) e la carne porcina essiccata. Nella sua Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1580), Tommaso Garzoni (1549 1589) (49) da Bagnacavallo, cita i diversi mestieri dei beccari, macellari, lardaroli e salsicciai.

A Bologna sorse la Compagnia de Salaroli e dei Lardaroli, come testimoniano diverse Provisioni emesse tra la fine del 1500 e tutto il 1600 (50).

Però a metà del secolo XVII Giuseppe Maria Mitelli, un noto incisore bolognese, presentando i costumi tradizionali indossati dai rappresentanti delle Arti bolognesi, raffigura soltanto i Sallaroli (con lo stemma che rappresenta un moggio contenente sale) ed i Macellari (con un bue nello stemma).

Non vi sono né lardaroli, e neppure i salzizzari o salsicciai. Dallo stesso Mitelli e da due stampe riportate da Fanti (51) che rappresentano un facchino che trasporta la carcassa di un maiale eviscerato, ed un “budellarolo” possiamo desumere quanto segue, almeno per la città (in campagna operavano i “norcini”). Il facchino trasportava i maiali uccisi e pelati (nel locale denominato pelatoio) e puliti delle interiore, al domicilio del proprietario degli animali od alla bottega del “salarolo”, che ne usava la carne per la confezione di salumi (insaccati soprattutto, ma anche lardi e carni salate a pezzo intero: prosciutto, spalla ecc.). Il budellarolo recapitava i visceri dei maiali (fegato, budella ecc.) e ne vendeva il sangue per conto del conduttore del pelatoio, cui esso spettava di diritto. Con sangue cotto, aromi ed anche miele si confezionavano salsicciotti detti “cervellati”.

Presso il pelatoio si esercitava anche un controllo sanitario delle carni di maiale.

Nel 1595 il vicedelegato Annibale Rucellai aveva ordinato che non potessero essere estratti dal pelatoio i maiali riconosciuti ”lazzarini” (da lazzaretto, quindi gravemente ammalati) o gramignosi, vale a dire colpiti da malattia (52).

La malattia più comune ed alla quale ci si riferisce è quasi certamente la cisticercosi, nella quale le cisti parassitarie della Taenia (pericolosa per l’uomo se le carni fossero state mangiate crude) rendevano le carni acquose, come rilevato anche da Tanara (1658) (53)

Il teatro specchio della realtà, presenta un terzo aspetto del norcino. Tra il XIV ed il XVII secolo, secondo Anton Giulio Bragaglia (54) nel teatro italiano nascono generi incentrati su personaggi che ne costituiscono il cuore. Nel secolo XV e nell’ambito della commedia dell’arte, nasce un nuovo genere burlesco, il norcino. Norcino è un contadino con una comicità rustica e che parla in dialetto, che si riallaccia all’artigiano itinerante castratore di maiali e di bambini, uccisore di maiali e salatore delle loro carni. Un personaggio rurale che da Norcia, in Umbria, è sceso anche a Roma, dove, come si è già fatto notare, d’estate esercitava il mestiere di venditore itinerante di cappelli di paglia. Per queste sue attività poteva quindi rappresentare ai cittadini un personaggio rurale.

Nel teatro il norcino appariva vestito come castratore di maiali, o castraporci, che impugna un gran coltello. Un personaggio che apostrofa i pedanti e che da questi viene chiamato villano codicone o porco brodigone, due termini che forse si collegano alla cotica o codiga ed alla broda, alimenti umani e animaleschi di bassa lega.

Un personaggio, inoltre, che si esibisce in un monologo nel quale vanta gli effetti “meravigliosi” della sua operazione, ma anche del perché è arrivato in città, fuggendo dal suo paese d’origine: “una mala capata”, una castrazione finita mala, un brutto affare (55). Almeno da quanto possiamo ora sapere, dalle tracce che ci sono rimaste e dai loro titoli, come quelli de Il porci o Il castraporcelli.

Il trovatore del XIII secolo Raymond d’Avignone, nell’unico poema che ci ha lasciato, enumera tutti i mestieri che il destino gli ha imposto e proclama che fu anche castrino di maiali (56).

Una denuncia che non ha il carattere dell’ignominia, ma che fa intendere come, tra le professioni itineranti e di un vagabondaggio connesso all’allevamento dei “maiali neri” e loro trasformazione in alimento, quella del castrino – norcino era forse la più importante e nobile tra quelle esercitate dagli “uomini rossi che passano”.

Infatti, se il suo luogo di lavoro è la piazza (in proposito è da ricordare quanto riportato da Carlo Levi (57) ), non è il cozzone o commerciante di porci, ma uno che viene da lontano ed al quale compete una denominazione d’origine, che in Italia è stata quella di norcino (da Norcia, patria di chirurghi che operano sia sull’animale sia sull’uomo), ma che in Francia è ad esempio quella di le Béarnais o di lo biarnès (58), con la quale s’identifica un’origine da Bearn di questi artigiani itineranti. Anche nell’Italia settentrionale il masìn o norcino è anche l’uomo che veniva da lontano.

Quali i motivi di un vagabondaggio che passa al lavoro itinerante, quindi stagionale e con percorsi abbastanza definiti? Quasi certamente il loro correlarsi ai cicli stagionali delle nascite dei maiali e della loro macellazione.

L’attività itinerante, che confina e sconfina nel vagabondaggio, tende a fare degli artigiani – vagabondi dei diversi. Una diversità che è tanto maggiore, quanto più difficile o particolare è la loro attività.

In questo senso il castrino – salatore di carni di maiale ha un’aureola di mistero particolare, che giustifica anche la sua entrata nella commedia dell’arte.

Un’individualità che può benissimo, anzi deve connettersi a particolarità tutte speciali, come quelle rilevate da Carlo Levi nel sanaporcelle che operava nella Lucania degli anni trenta del secolo passato e già citate: un uomo dai capelli rossi in un paese d’uomini neri, che compie un rito, e mezzo sacerdote e mezzo chirurgo. La sua è un’arte rara, che si tramanda di padre in figlio.

Un uomo rosso che riparte coperto da benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote druidico ed il suo coltello del sacrificio. L’uomo rosso (che non è solo rosso, ma anche biondo) è anche un diverso, soprattutto nelle culture mediterranee, com’è stato più volte fatto notare, e che necessita anche di essere esorcizzato, come ad esempio indica un proverbio del mondo suino e che recita “tra i rossi solo due sono buoni: Cristo ed il porcello del frate di Sant’Antonio”.

Tutti i castrini, norcini e altri artigiani suini itineranti erano di pelo e capello rosso, occhi azzurri e con l’aspetto di Vercingetorige – come il sanaporcelle di Carlo Levi?

Tutt’altro, ovviamente, ma è indubbio che se tra i tanti ve n’era uno con queste caratteristiche era subito notato, per divenire quasi un archetipo, come ben dimostra l’analisi eseguita in Francia da Claudine Fabre-Vassas (59) e la testimonianza italiana di Levi. Riprendendo quanto già fatto notare, è da rilevare che da una parte la condizione umana di avere il “pelo rosso” è abbastanza rara. Il carattere, che pare essere comparso in Europa solo 20.000 anni fa, e che pare essere in progressiva riduzione, si stima non abbia mai superato il due per cento della popolazione, anche se in taluni territori, come l’Irlanda e la Scozia abbia raggiunto l’otto per cento (60).

Questa rarità deriva dal fatto che il colore dei capelli deriva da molti geni e che solo uno dei principali geni coinvolti ha quaranta varianti, ma di queste solo sei provocano i capelli rossi.

Inoltre i capelli rossi sono recessivi e quindi un individuo per avere questo carattere deve ereditare i geni da entrambi i genitori. Le possibilità sono quindi relativamente rare, salvo nelle comunità “chiuse” dove la popolazione ha antenati comuni e dove sono maggiori le probabilità che la gente abbia alcuni geni condivisi.

Se tra questi ultimi vi sono anche geni che determinano la comparsa del “pelo rosso”, più frequenti sono i casi d’omozigosi e quindi di persone che manifestano il carattere.

D’altra parte, di fronte alla relativa rarità della caratteristica “pelo rosso”, si osserva che il cognome (soprannome) che si riferisce al “pelo rosso” è tra i più diffusi in Italia.

Si tratta dei cognomi Rossi/Rosso e Russo/Russi (nel meridione) e derivati (Rossini, Rossetti, Rossoni, Rossello, Rusino e via dicendo).

Quest’apparente contraddizione dimostra come il colore dei capelli sia fortemente caratterizzante e sia stato subito utilizzato come elemento d’identificazione, che si è poi mantenuto anche quando, nei discendenti, non era più presente.

Nella valutazione dell’uomo dal “pelo rosso” non è da sottovalutare, inoltre, il suo ruolo in attività connesse al sangue, come la castrazione, l’uccisione del maiale e la lavorazione delle sue carni e come sia stato possibile che nel caso – certamente non frequente – di un sanaporcelle o di un norcino di “pelo risso”, questo sia stato subito identificato per questo carattere.

Com’è avvenuto nella descrizione di Carlo Levi del suo Vercingetorige.

“Uomini rossi che passano” non è certamente una conclusione (se lo è, sarebbe per lo meno sfuocata) di un tema quanto complesso e soprattutto intrigante, del quale si è cercato di delineare i rapporti interni ed esterni, in vista anche di un migliore approfondimento.

Quest’approfondimento dovrebbe riguardare gli aspetti sociali di mestieri che sono scomparsi o che, se ancora sussistono – come quello del norcino o mazén – si sono trasformati non solo nelle loro componenti tecniche, ma soprattutto in quelle sociali.

In un tempo ancora a noi vicino, come quello descritto da Carlo Levi, ogni mestiere aveva sue valenze antropologiche forti. Queste valenze riguardavano molti mestieri, in modo particolare quelli itineranti, oggi quasi del tutto scomparsi.

Vedere operare presso la propria abitazione e assistere alla nascita, dalla propria “materia” il prodotto dell’artefice dava una sicurezza di cui oggi ci accorgiamo d’avere bisogno.

Il “proprio” maiale dal quale si ottenevano i “propri” salumi – indipendentemente dalla loro sicurezza oggettiva e qualità gastronomica – erano alla base di una sicurezza psicologica e, soprattutto di un senso d’appartenenza ed identificazione di cui oggi sentiamo la mancanza.

Un tempo, le parole norcino o mazén evocavano anche una serie di collegamenti e soprattutto impressioni ed emozioni anche di tipicità oggi in via di scomparsa, se non collegate a un mito (61) di una buona od ottimale qualità artigianale dei salumi.

Oggi, queste valenze non solo sono scomparse, ma è scomparsa anche la possibilità di rintracciarle e d’apprezzarle leggendo il passato e certi termini – come quelli che abbiamo superficialmente sopra accennato – sia pure tecnicamente definiti, per la quasi totalità delle persone hanno perso quel valore evocativo che avevano invece nel passato. Sono termini che spesso sono soltanto dei flatus vocis.

I cibi o mangiari di strada, oggi venuti di moda con il termine esotico di foodstreet (62), sono antichissimi e si può supporre che siano nati con la città, entrando in quella che è stata definita ”civiltà della piazza”, quando la vita popolare, economica e sociale trovava per via il luogo ove incontrarsi, scambiare le merci e le notizie, sulle strade e sulle piazze si esercitavano anche le arti di servizio e la “cucina di strada” trovava il suo spazio.

Era una cucina sobria di poche e povere cose nella quale si offrivano cibi già preparati o cotti con mezzi semplici all’aperto: frittura, griglia o poco più.

Era una cucina per il popolo, esercitata per lo più dai girovaghi del cibo, gli ambulanti, a loro volta anche vagabondi che s’inventavano un lavoro: il trippaio o il porchettaro con il loro carretto, il mellonaro con il suo banco, il bibitaro con la fiasca entro una cesta a tracolla e via dicendo (63).

Ogni venditore aveva il suo grido di richiamo, spesso ricco di una musicalità popolare, non priva di qualità artistica (64). Il maiale non era molto presente tra i mangiari di strada, salvo il caso di zampetti di maiale venduti dai trippai napoletani (65) o la porchetta dell’Italia centrale venduta dal porchettaro La porchetta ha antichissime origini, che si riallacciano anche al maialino farcito d’Apicio. Mastro Martino da Como, nel secolo XV insegnava ai cuochi delle Corti “come acconciare bene una porchetta”.

Proprio per le sue origini nobili, è improbabile che nel passato ed in particolare nel medioevo carni di maiale ed in particolare la porchetta facesse parte dei mangiari di strada.

La sua presenza nelle sagre, mercati di campagna, nei sabati e domeniche dei piccoli borghi si è diffusa circa nell’ultimo dopoguerra, particolarmente nell’Italia centrale (66).

Un tempo, il porchettaro, che aveva preparato la porchetta a casa, raggiungeva il suo pubblico con un carrettino trainato da un somaro, poi venne l’era del triciclo a pedali e successivamente del triciclo motorizzato (in modo particolare l’Ape), mentre oggi viaggia su automezzi con banco d’acciaio e vetrina d’esposizione.

Con la porchetta siamo arrivati ai tempi moderni, quando anche la cucina nobile si è diffusa a tutta la popolazione, passando dal palazzo alla strada.

Nota: il presente saggio, già parzialmente pubblicato in alcune riviste si settore, è stato ampliato e aggiornato nella forma attuale nel 2013.

NOTE

1 E’ opportuno inserire tra il vagabondaggio vero e proprio, senza una meta ed un itinerario preciso, anche il fenomeno delle attività itineranti, che si svolgevano su percorsi più o meno definiti, spesso predeterminati e ciclici, in relazione anche ai cicli stagionali, ad esempio la transumanza. Molte attività artigianali, collegate ai cicli stagionali erano itineranti.

2 Camporesi P. (a cura di), Il libro dei vagabondi, Garzanti, 2003, p. 14.

3 Le Goff J., La civilization de l’Occident mediéval, Paris, Artaud, 1965, p. 172.

4 Camporesi P., cit., pp. 14-15.

5 Camporesi P., cit., p. 15-16.

6 Camporesi P., cit., p. 33.

7 Molto stretti sono i rapporti che un tempo vi erano tra i mestieri itineranti delle campagne e quelli delle città. In proposito a questi ultimi è da segnalare la recente rassegna di Valli C. G., Gli antichi sapori dei mangiari di strada. Storie di cibi e di ambulanti, di voci e di parole al tempo della cultura della fame, Cierre Edizioni, Sommacampagna (VR), 2003.

8 Focillon H., Art d’Occident, Paris, Armand Collin, 1955, p. 4.

9 Michel F., Histoire des races maudites de la France er de l’Espagne, Paris, 1947.

10 Rivière L., Mendiants et Vagabonds, Paris, 1902.

11 Fanfani A., Storia del lavoro in Italia dalla fine del secolo XV agli inizi del XVIII, Milano, 1953, pp. 135-143, Vagabondi e disoccupati.

12 Geremek E., La popolazione marginale tra il Medioevo e l’era moderna, in Agricoltura e sviluppo del capitalismo. Atti del Convegno organizzato dall’Istituto Gramsci, Studi Storici, vol. IX, 1968.

13 Vexliard A., Introduction à la sociologie du vagabondage, Paris, 1956.

14 Sono dette “malattie rosse” del maiale quelle che provocano la comparsa, sulla pelle, di macchie rosse: in modo particolare il Mal Rossino (rougeole in francese) e le Pesti Suine (classica e africana) ed altre forme morbose infettive. La denominazione di “malattie rosse” ed in particolare il Mal Rossino pare recente e della fine del secolo XIX, in quanto di non facile, se non impossibile identificazione nei maiali a pelle nera.

15 La denominazione dei macellatori di maiali e soprattutto di coloro che eseguivano la lavorazione delle loro carni, rifacendosi a quella di “macellatori” varia da masìn a masalìn, masèr, massarìn, mazén ecc. (Caleffi A., Mazzali E., Nato nell’età del bronzo. Origine e gloria del suino pesante mantovano, Sometti, Mantova, 2003).

16 Ballarini G., Breve storia della grande salumeria italiana, EDRA, Milano, 2003.

17 Fabre-Vassas C., La bête singulaire. Les juifs, les chrétiens et le cochon, Editions Gallimard, Paris, 1994.

18 Les hommes rouges, in Fabre-Vassas C. cit., pp. 19-52.

19 Sui maiali medievali e sul loro colore (prevalentemente o totalmente scuro o nero) vi è una ricca bibliografia. In particolare per quel che riguarda l’Italia si rimanda a: Ballarini G., Storia Sociale del Maiale. Il Futuro del Passato della Razza Suina Parmigiana, PPS Editrice, Parma, 2002; Baruzzi M., Montanari M., Porci e Porcari nel Medioevo, CLUEB, Bologna, 1981; Baruzzi M., Montanari M., 1981, Porci e porcari nel medioevo, Bologna incontri, 12, fasc. 6, p. 27; Montanari M., Alimentazione e cultura nel Medio Evo, Laterza, Bari, 1988.

20 Il richiamo alla Francia e soprattutto alle regioni meridionali non è improprio, visti i numerosi commerci tra le regioni mediterranee francesi e l’alta Italia.

21 La cisticercosi era nota per la presenza dei cisticerchi, visibili nell’animale in vita soprattutto nella lingua. I noduli erano assimilati a quelli della lebbra umana, da qui anche alcune denominazioni di “maiali lebbrosi”. In quanto ammalati, in Italia, erano denominati “lazzarini” (dal Lazzaro della parabola evangelica, da cui derivava anche il termine di lazzaretto, luogo destinato agli ammalati cronici).

22 Le indagini scientifiche sul “pelo rosso” si sono svolte sulle direttrici della genetica e della biochimica, anche in relazione a metabolismi e patologie. Indicative sono alcune, recenti pubblicazioni (Mundy N. I., Kelly J., Evolution of a pigmentation gene, the melacortin-1 receptor, in primates, Am. J. Phys. Antropol., 121, 67-80, 2003. John P. R., Ramsay M., Four novel variants in MC1R in red.haired South African indiduals of European descent, Human Mutation, 19, 461-462, 2002. Sturm R. A., Teasdale R. D., Box N. F., Human pigmentation genes: identification, structure and consequences of polymorphic variation, Gene, 277, 49-62, 2001. Grimes E. A., Noake P. J., Dixon L., Urquhart A., Sequence polymorphism in the human melanocortin-1 receptor gene as an indicator of the red hair phenotype, Forensic. Sci. Int., 122, 124-129, 2001).

23 Tra le recenti indagini sociologiche, considerate anche successivamente, sono da segnalare le seguenti: Heckert D. M., Best A., Ugly duckling to swan: Labeling theory and stigmatization of red hair, Symbolic Interaction, 20, 365-384, 1997. Clayson D. E., Maughan M. R., Redheads and blonds: Stereotypic images, “Psychol. Reports”, 59, 811- 816, 1986. Lawson E. D., Hair color, personality and the oserver, “Psychol. Reports”, 28, 311-312, 1971.

24 Heckert e Best, cit.; Clayson e coll., cit.

25 Baruzzi M., Montanari M., Porci e Porcari nel Medioevo, CLUEB, Bologna, 1981; Baruzzi M., Montanari M., 1981; Porci e porcari nel medioevo, Bologna incontri, 12, fasc. 6, p. 27.

26 Montanari M., Alimentazione e cultura nel Medio Evo, Laterza, Bari, 1988; Montanari M., L’alimentazione contadina nell’Alto Medio Evo, Liguori, Napoli, 1979.

27 Il colore del maiale è stato recentemente esaminato e discusso, anche nella sua genesi, da G. Ballarini, Storia sociale del maiale, Camera di Commercio, Parma, 2002. Anche nell’ambito della specie Sus scropha, la grande variabilità morfologica, fino a poco tempo fa era inquadrata e codificata in “razze”. Oggi, meglio, si parla dei già citati “fenotipi” o “morfotipi” o “tipologie morfologiche” per gli aspetti esteriori, ed in “genotipi” o “linee genetiche” per gli aspetti ereditari. Per quanto riguarda il colore esteriore dei suini, se ancor oggi i cinghiali sono scuri (aguti), tra i domestici troviamo quelli “neri” (dal Meisan cinese al Large Black inglese), quelli non aguti, “bianchi” (ad esempio il Large White inglese) e “rossi” (Duroc) o rossastri, come alcuni individui della razza italiana Romagnola. Non mancano i maiali “pezzati” per strisce (Cinta Senese) o con macchie (Spot Poland). Il maiale mediterraneo aveva un mantello scuro dal melanico al grigio ardesia fino al rosso, per opportunità mimetica e per necessità metabolica, mentre quello allevato in condizioni claustrali trovò un vantaggio, se non necessità, di divenire più chiaro, fino al completamente depigmentato.

28 Cozzone (dal latino coctio (o cocio) –onis sensale o mediatore nel commercio degli animali, in tempi più recenti di cavalli, ma nel passato d’altri animali e merci.

29 Diverse le denominazioni di questi maiali: “lattoni” se da poco slattati o” smorbati” se avevano già superato le malattie della giovane età.

30 Tanara V., L’Economia del Cittadino in Villa, Bertani, Venezia, 1658 (successivamente G. Monti, Bologna, 1664 ed altre diciassette edizioni fino al 1761), ed. 1658, p. 192.

31 A questo proposito vedi: Grmek Mirko D., Le malattie all’alba della civiltà occidentale, Il Mulino, Bologna, 1985. In particolare il capitolo VIII “Relazioni biologiche tra la lebbra e la tubercolosi”.

32 Antico nome della Provenza, nel sud della Francia, era Occitania o Linguadoca, in quanto vi si parlava la lingua d’Oc. L’Occitania scomparve, com’entità geopolitica, nella prima metà del secolo tredicesimo, quando fu messa a ferro e fuoco durante la crociata bandita da Papa Innocenzo III, con l’appoggio dell’allora Re di Francia Luigi IX, il futuro San Luigi. La regione fu politicamente annessa alla Corona di Francia e la lingua d’Oc scomparve, ma rimasero molte sue parole, soprattutto quelle divenute d’uso popolare e diffuse soprattutto in Italia dai trovatori, dai viaggiatori itineranti e dai vagabondi.

33 Fabre-Vassas C., La bête singulière, Gallimard, Paris, 1994.

34 Levi C., Cristo si è fermato ad Eboli –Einaudi, Torino, 1945. Il paese di Gagliano descritto da Carlo Levi è da riferire a quello di Aliano, in Lucania, dove l’autore fu inviato al confino tra il 1935 ed il 1936.

35 Fabre-Vassas C., cit., pp. 78-79.

36 A questo riguardo è necessario ricordare la diversa sensibilità delle diverse culture di fronte alle mutilazioni, soprattutto sessuali, un argomento oggi sotto l’attenzione di tutti per quanto riguarda l’infibulazione femminile, ma che riguarda anche la circoncisione maschile ed, un tempo, la castrazione maschile.

37 In Fabre-Vassas C., cit. – Da Franklin A., La vie privée d’autrefois. Varietés chirurgicales, Paris, 1894, pp. 200-203. Sui norcini napoletani vedere anche Mojon B., Mémoire sur les effects de la castration dans le corp humaine, Montpellier, 1804.

38 Mojon B., cit.

39 Fabre-Vassas C., cit., p. 79; Pinot G., Étude médico-légale de la castration, Lyon, 1890, pp. 56-57.

40 Ballarini G., Piccola storia della grande salumeria italiana, EDRA, Milano, 2003.

41 Pedrocco G., La conservazione del cibo: dal sale all’industria agro-alimentare, in Capatti A., De Bernardi A., Varni A. (a cura di), Alimentazione. Storia d’Italia, Annali 13, Einaudi, Torino, 1998.

42 Caleffi A., Mazzali E., cit.

43 Che la chirurgia sia un’arte un tempo detta “meccanica” lo si ricava anche dalla sua stessa denominazione. Il termine chirurgo deriva dal greco cheir-ergos. Cheir (mano) ed ergon (opera o lavoro) indicano colui che cura le malattie con l’uso della mano, sola od armata di strumenti. In modo analogo in spagnolo la sala operatoria è denominata chirofano, il luogo dove si manifesta il (lavoro della) mano. Dal latino chirurgus deriva l’italiano chirurgo, il provenzale surgien e l’inglese surgeon (da chirurgianus), Pianigiani O., Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, F.lli Melita Editori, Firenze 1907 (I ed.), I Dioscuri, Genova, 1988 (II ed.).

44 Castiglioni A., Storia della Medicina, A. Mondadori, Milano, 1936.

45 A questa interpretazione positiva se ne affianca un’altra negativa. Come riporta Ottorino Pianigiani nel suo Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, F.lli Melita Editori, Firenze 1907, I ed.; I Dioscuri, Genova, 1988, II ed., il termine norcino è attribuito anche a “uomo vile e sudicio. Dicesi così per spregio anche a un Chirurgo senza studio e senza pratica, perché più atto a trattar porci che uomini, o perché una volta da Norcia solevano venire dei cerusici, che si spacciavano capaci a curare certi mali delle parti genitali”.

46 Fabre-Vassas C., cit., p. 133.

47 Caleffi A., Mazzali E., cit., p. 10.

48 Frati L., Statuti di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, Bologna, 1880.

49 Garzoni T., La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, Meietti, 1599.

50 Roversi G., Il testamento del porco. Note di storia gastronomica bolognese. Strenna storica bolognese, pp. 29, 219, 252, 1969. Roversi G., Viaggiatori stranieri a Bologna. Impressioni d’autore dal ’500 al ’900, L’inchiostro blu, Bologna, 1994. Roversi G. (a cura di), La carne suina nei secoli. Usi e Virtù. Con una scelta di bandi sulla tradizione salumaria a Bologna dal ’500 al ’700, Ed. Il “Magno Ordine della Mortadella”, Coop. Ed. I Martedì, Bologna s. d.

51 Fanti M., I macellai bolognesi. Mestiere, politica e vita civile nella storia di una categoria attraverso i secoli, Sindacato Esercenti Macellerie, Bologna, 1980.

52 Fanti M., cit.; Rosa E., Medicina e salute pubblica a Bologna nel Sei e Settecento, “Quaderni culturali bolognesi”, VIII, Bologna, 1978, pp. 36-39.

53 Tanara V., L’economia del cittadino in villa, Bertani, Venezia, 1658.

54 Bragaglia A. G., Storia del teatro popolare romano, Roma, 1958, pp. 246-265.

55 Bragaglia, cit., pp. 67 e 71. Toschi P., Le origini del teatro italiano, Torino, 1955, p. 336.

56 Fabre-Vassas C., cit. p. 40.

57 Levi C., cit., “Il Timbone della Fontana era un largo spiazzo, quasi piano, tra i monticelli d’argilla, nei pressi dell’antica sorgente, un po’ fuori del paese…”, p. 180.

58 Fabre- Vassas C., cit., p. 41; De Marca P., Histoire de Béarn, Paris, 1640, AA. VV., L’Émigration des Pyrénéens vers l’Espagne, Pau, 1972.

59 Fabre-Vassas C., cit., in particolare il capitolo Les Hommes Rouges, pp. 19-51.

60 Desmond Tobin, della Bradford University, Conferenza organizzata dalla Oxford Hair Foundation. Dai giornali del 17 novembre 2003.

61 “Il tipico è mitico” è stato affermato da Thomas Mann (1922).

62 Tra i foodstreet suini più diffusi in America vi sono gli hot dog, salsicce o wurstel di carne e grasso di maiale, cotti alla griglia e serviti dentro un panino, abbondantemente conditi con salsa senapata.

63 Per una più completa rassegna si rimanda al citato Valli C. G.

64 Molte sono le leggende, od i miti, che le grida dei venditori ambulanti siano state all’origine di melodie celebri o lo spunto per composizioni artistiche. In proposito C. Caravaglios (Saggi di folklore, Rispoli, Napoli, 1936) sostiene che le voci modulanti degli ambulanti avrebbero avuto significative influenze sulla canzone napoletana. Bruno Barilli (Il paese del melodramma, Carabba, Lanciano, 1930; MUP, Parma, 2003) riporta il racconto (o la leggenda?) di Giuseppe Verdi che nella Piazza Grande di Parma ode un grido noioso e solitario di un venditore, cava fuori un libricino e segna una sull’altra quelle quattro note approssimative, che avrebbero trovato posto – sempre secondo quanto riporta il Barilli – nell’opera Aida, precisamente nell’invocazione rituale dei sacerdoti nascosti nel tempio. Un giornalista di razza, quale Orio Vergani (Il Banditore, Electa, Milano, 1955) riporta invece la leggenda che sempre Giuseppe Verdi abbia trovato nel grido di un venditore ambulante il tema de La donna è mobile… Come fa rilevare Valli (cit.), non è una leggenda che uno dei suoi personaggi viene alla ribalta portando a tracolla una cassetta di mercanzia.

65 Valli C. G., cit., p. 52.

66 Valli C. G., cit., pp. 57-60.