Del suino e delle sue carni nella storia: dall’antichità all’alto medioevo
Di Domenico Vera
1. L’origine comune del maiale domestico dal cinghiale selvatico (sus scrofa), con più di venti sottospecie, si colloca in un’area amplissima che in Occidente si estende dalle isole britanniche al Marocco e in Oriente dal Giappone alla Nuova Guinea. Dove avvenne la prima domesticazione è incerto, ma le risultanze archeologiche (circa 7.000-5.000 a.C.) si concentrano nel Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale: Palestina, Irak, Turchia, Grecia.
Il ritrovamento più antico, nel 1964 a Cemi, alle pendici della catena del Taurus, nella Turchia Sud-orientale, risale all’8.000 a.C. circa. In questo sito, l’addomesticamento del maiale precede la coltivazione del grano o dell’orzo, e ciò sfaterebbe due convinzioni diffuse: che capre e pecore furono i primi animali allevati dall’uomo e che l’agricoltura precedette l’allevamento organizzato. Quindi, dopo il cane, il maiale sembrerebbe meritare il titolo di più antico “amico dell’uomo”.
Altre tesi, meno convincenti, indicano l’origine dell’addomesticamento nell’Asia meridionale da dove sarebbe risalito verso la Cina, le cui aristocrazie del Nord già intorno al 4.300 a.C. affermavano il loro potere attraverso il controllo di grandi allevamenti intensivi. Dati i tratti comuni delle tante specie di maiali con il cinghiale, è plausibile pensare che in antico l’addomesticamento avvenne in luoghi diversi e in tempi diversi.
Quest’animale “opportunista” forse decise di stabilirsi negli insediamenti umani dove disponeva di resti abbondanti e della protezione dai grandi carnivori. L’allevamento può essere iniziato dai cinghialetti castrati che, in effetti, si comportano come maialetti non castrati. Seguì poi la creazione di razze regionali, che tuttavia solo con la selezione artificiale degli ultimi due secoli introdusse quelle fortissime differenziazioni che noi conosciamo (1).
2. Nelle fasi premoderne della storia umana, l’esistenza delle grandi civiltà è stata regolarmente preceduta e accompagnata dalla crescita demografica; e questa “potenza del numero” si è basata in prevalenza su sistemi produttivi di tipo agricolo fortemente stanziali. Tutti i sistemi sociali ed economici complessi, furono, si può dire, condannati a fondarsi su poche colture in grado di alimentare grandi popolazioni ed in modo continuativo. Da queste necessità ebbe origine quell’egemonia assoluta dei cereali nell’ambito del vicino Oriente e del Mediterraneo, del riso in Asia e del mais nelle Americhe che, oltre a modellare i paesaggi, ha determinato il carattere diversissimo, e talora opposto, delle civiltà che per millenni si sono avvicendate nelle aree di dominanza di queste tre colture: il grano che si alimenta dalla pioggia consente società individualistiche, il riso che dipende dall’irrigazione favorisce quelle gerarchizzate, il mais che richiede poco sforzo e produce molto crea società instabili (2).
In queste civiltà fortemente agrarie l’allevamento svolge un ruolo necessariamente secondario: è complementare, occupa talora spazi differenti, spesso risulta conflittuale con l’universo agricolo. A livello di archetipi, il pastore è simbolo d’inciviltà e di selvaggio. In una iscrizione di Polla, nella Lucania romana, un console si vanta “per primo disposi affinché i pastori nell’agro pubblico si ritirassero di fronte ai contadini”, gli aratores (3). Ma gli esempi sono infiniti. Basta leggere la Bibbia. Dopo la cacciata dall’Eden, il cattivo Caino fa l’agricoltore e il buon Abele fa il pastore. In questa parte della Genesi prevalgono chiaramente i valori pastorali degli ebrei che, usciti dalla Mesopotamia, erano diventati nomadi, patriarcali e quindi inevitabilmente maschilisti; La contrapposizione fra mondo rurale e mondo pastorale risale invece al retaggio della cultura sumerica, che fu la culla delle principali pratiche agricole. Ed infatti, nel poema accadico di Gilgamesh la donna-madre non è causa della rovina dell’umanità ma è il veicolo dell’acculturazione. Questa Eva mesopotamica utilizza il suo sex-appeal, uno dei frutti proibiti del paradiso terrestre, per strappare il pastore selvaggio, Enkidu, che succhia latte, mastica erbe e convive con le belve, dall’Eden: termine che in sumerico non indicava il giardino primigenio bensì “steppa”, “terra non coltivata”. Unitasi a lui, la donna lo inizia alla civiltà (“la saggezza era in lui e i pensieri di un uomo stavano nel suo cuore”), insegnandogli a mangiare secondo una dieta tipicamente mediterranea: “Enkidu, lo esorta la donna, mangia il pane, è il bastone della vita, bevi il vino, è l’uso del paese”. Enkidu bevve sette calici di vino forte (si noti il numero simbolico) e si rallegrò: “lisciò i peli arruffati del suo corpo e si unse con olio. Enkidu era diventato un uomo” (4).
3. Cosa c’entra tutto ciò con la storia del maiale e, in prospettiva, con i prosciutti e i culatelli? Apparentemente nulla, in realtà moltissimo. Il legame del suino con le società umane è una storia millenaria, e occorre un po’ di pazienza per seguire filo d’Arianna che conduce alla modernità. Se in antico mondo agricolo dei popoli sedentari e mondo pastorale dei nomadi sembrano, e in effetti sono in antitesi, il maiale, che una recentissima enciclopedia universale del cibo ha definito “una delle glorie dell’addomesticamento”, è riuscito a conciliare questa contrapposizione come nessun altro animale. In Cina – indubbiamente la massima civiltà agricola del mondo – lo hanno riconosciuto da millenni, perché l’ideogramma della parola “casa” si compone di due elementi: sopra, il segno di “tetto” e sotto, il segno di “maiale”.
Quali elementi determinarono, allora, lo straordinario successo storico del sodalizio fra umani e suini? Esistono alcuni fattori ricorrenti che sono particolarmente evidenti per l’area occidentale europea. In primo luogo, i suini, sono straordinariamente prolifici, crescono rapidamente di peso e realizzano il massimo del rapporto fra investimento nell’allevamento e resa. Ma, soprattutto, sono onnivori e, nonostante siano una formidabile fabbrica di proteine, non sottraevano alcun tipo di risorsa importante agli umani. Se allevati allo stato brado, sfruttavano i prodotti di aree non-agricole che gli umani non mangiavano e non interferivano con le aree riservate agli erbivori: capre, pecore, bovini, cavalli, … Se invece veniva praticato un allevamento stabulare, il maiale veniva alimentato in gran parte con i residui alimentari e con quelli agricoli. Dunque, neppure in questo caso sottraeva risorse a un’umanità per la quale, dai più antichi millenni fino all’Europa di Ancien Régime, fame e carestia sono stat, “una struttura della vita quotidiana” (F. Braudel).
Per questa capacità del suino di “riciclare”, la trattatistica anglosassone ha elaborato la definizione di “Garbage pig”, letteralmente “maiale da spazzatura”.. La memoria corre naturalmente al mitico maiale domestico dei nonni e al ricordo di carni saporitissime e di salumi da favola, ma la storia offre utilizzazioni più importanti, sebbene disgustose. In Cina e in Corea si allevavano nelle case maiali, che erano una fonte importante di carne per gli agglomerati urbani, la cui dieta farebbe la gioia di un assessore addetto dallo smaltimento dei rifiuti: mezzo chilo di feci umane al giorno per animale e circa 55 grammi di spazzature, vale a dire quattro capi per una famiglia di quattro persone (5). È arduo pensare a un culatello fatto con queste carni. Sta di fatto, che questo ciclo tanto virtuoso quanto odoroso non fu unicamente asiatico. In Europa grossi produttori istituzionali di rifiuti utilizzavano i maiali come netturbini: gli ordini conventuali (fra cui brillavano i frati di Sant’Antonio “del porcello”, che avevano il privilegio di poter tenere maiali in città), gli ospizi, gli ospedali. Anche le città, prima di dotarsi di servizi di nettezza urbana, usavano branchi appositi di suini. È questo non ai tempi del Barbarossa, bensì a Napoli e a New York City fino al XIX secolo inoltrato.
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1. D. W. GADE, Hogs (Pigs), in The Cambridge History of Food, Cambridge, 2001, pp. 536-541.
2. F. BRAUDEL, Capitalismo e civiltà materiale(secoli XV-XVIII), Torino, 1977, pp. 70-119.
3. A. RUSSI, La Lucania romana, San Severo (Foggia), 1995, pp. 31-32.
4. D. SILVESTRI, Per un progetto di indagine sulla terminologia alimentare nel mondo antico, in D. VERA (a cura di), Demografia, sistemi agrari, regimi alimentari nel mondo antico, Bari, 1999, pp. 347-355.
5. H. EPSTEIN, Domestic Animals in China, Farnham Royal (Gran Bretagna), 1969.