Il maiale dal Medioevo ai nostri giorni

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Di Alda Tacca

Tanto per riprendere il filo riassumeremo così l’antica storia del parmense: maiale, maiale e soprattutto specializzazione nei suoi prodotti…

Veniamo dunque al Medioevo: si sa che fu un’epoca in cui la gente ebbe a soffrire carestie e stenti a non finire, soprattutto a causa delle scorribande di popolazioni dai Romani considerate barbare, eppure nella nostra zona l’arrivo di questi barbari – i Longobardi prima, e i Franchi poi, entrambi, come i vecchi Celti, di vocazione filo-suina – non fece che assecondare la nostra già consolidata tradizione, determinando al confine con Bologna, una linea di netta separazione tra la Longobardia e quella Romanìa bizantina che invece preferiva la carne di pecora e di capra [Fig.1]
Dell’attenzione che Longobardi e Franchi hanno posto alla campagna, ai suoi lavoratori ed ai loro manufatti, s’è detto, come pure sul prezioso elenco di termini altomedioevali di prodotti di carne suina: lardum, siccamen (carne affumicata), sulcia (insaccati) e niusaltus (carne salata), occorre invece soffermarsi sul re longobardo Liutprando perché fu, se così si può dire, l’inventore del monopolio del sale (Editto del 715), e ciò ci consente d’aprire una breve parentesi su un argomento estremamente pertinente al nostro tema.
La storia del sale coincide — anzi ne è per qualche verso la genesi — con la storia stessa del commercio medioevale: in un’economia chiusa, come fu quella dell’Alto Medioevo, questo prodotto tanto esotico, quanto assolutamente indispensabile, funzionava, come attesta anche Cassiodoro(1), praticamente da moneta.
Ma tornando all’idea di Liutprando, questa dovette risultare una vera folgorazione per i veneziani che, infatti, sei secoli più tardi, misero fine alla gestione autonoma delle saline lagunari (la Chiesa di Parma faceva riferimento a quelle di Cervia), questa volta però con monopolio ferreo ed organizzatissimo. Fu allora che a Parma dalla Dogana del Sale e dal Ponte dei Salari (tra gli attuali ponte di Mezzo e Caprazucca) di sacchi umidi d’acqua marina ne passarono più pochi, poiché, per ficcarla nelle scarsele dei veneziani, si cominciò a far andare a pieno ritmo l’escavazione dei pozzi in zona di Salsomaggiore, attivi da data immemorabile, ma, chissà perché, finora non adeguatamente sfruttati.
Orbene, di questo sale, contenente in maggior quantità di quello marino iodio, bromo e zolfo — tutti elementi capaci di fulminare all’istante lo sviluppo batterico —, si capisce come, a conservar la carne, ne servisse poco, e così viene in buona parte spiegata la tradizione parmense del prosciutto dolce(2).
Altre testimonianze, sia pure indirette, poiché le si deduce dall’entità delle Decime pagate, ci parlano di consistenti branchi di animali — il più stupefacente era quello di circa 4000 capi vaganti a Migliarina (Modena) —, che pascolavano in boschi di querce(3) al tempo molto frequenti ed estesi sul nostro territorio, come si deduce da parecchi toponimi locali contenenti il temine ronco, ossia un bosco eliminato per far terre da pane (Roncole Verdi è il più conosciuto).
Infine ci resta un importante patrimonio iconografico ad opera di quei mastri scultori e pittori che, lungo i percorsi dei pellegrinaggi, hanno fatto camminare idee e stili. Si tratta in primo luogo dei rilievi romanici, spesso disposti sulle facciate degli edifici religiosi, che rappresentano il Calendario, in cui i mesi di Ottobre, Novembre e Gennaio raffigurano attività legate al maiale [Fig. 2]: Il Gennaio del duomo di Fidenza e il segno zodiacale dell’Aquario del Battistero di Parma, le più antiche testimonianza non scritte del salame nostrano [Fig. 3], sono belle immagini di scuola antelamica che mostrano inequivocabilmente un usanza tanto consolidata da essere divenuta, appunto, il simbolo d’un mese; il codice Theatrum Sanitatis (sec. XIV) [Fig. 5] dove si raffigurano prosciutti e mezzene, esposti nella bottega di un lardarolo, termine usato in zona per definire quei mastri salatori che qui si staccarono dall’Arte dei Beccai (macellai), stilando un proprio Statuto a partire dal 1450, ma che evidentemente esistevano da molto tempo se fosse vero, come taluni sostengono, mentre noi non possiamo confermarlo, che eccellentissimi culatelli nostrani vennero serviti al pranzo di nozze di Andrea dei Rossi e Giovanna Sanvitale (1322) o inviati abitualmente a Galeazzo Sforza dai cugini Pallavicino…

Bibliografia

E. DALL’OLIO, Il Prosciutto di Parma, Parma, Agenzia 78, 1989, pp. 24-28.

Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2006, pp. 276-277.